I convenzionali impianti di trattamento delle acque reflue, ossia quelli attualmente utilizzati, non si sono rivelati in grado di rimuovere tali microinquinanti innanzitutto perché essi non sono mai stati monitorati in quanto non esiste una normativa che li disciplina \citep{Bolong_2009} e poi perché caratteristica principale di tali ECs è la loro concentrazione molto bassa dell’ordine dei ng/L fino a qualche μg/L \citep{Hartig_1999,Kasprzyk_Hordern_2007,Kasprzyk_Hordern_2009}.  \citealp{Zhang_2008} hanno infatti riscontrato in uno studio specifico una concentrazione di Carbamazepina negli effluenti degli impianti di trattamento convenzionali dell’ordine di centinaia di ng/L e una concentrazione di Diclofenac variabile da “140 ng/L a 1480 ng/L”. Si rende, quindi, necessaria l’individuazione di trattamenti specifici che siano in grado di considerare le molteplici proprietà chimiche di cui godono tali composti da cui deriva una variabilità in termini di successo di rimozione del singolo trattamento \citep{Bolong_2009}. In tal senso in alcuni studi sono stati applicati processi di ossidazione con ozono, come nel caso dello studio di \citep{Andreozzi_2002} dal quale è però emerso che il raggiungimento di una percentuale soddisfacente di rimozione dei prodotti farmaceutici richiede una concentrazione di ozono elevata e una conseguente formazione rilevante di sottoprodotti, oltre che costi insostenibili. Altri metodi di ossidazione prevedono, invece, una fotocatalisi con TiO2 e UV/H2O2. Tali metodi consentono di ottenere percentuali di rimozione molto elevate \citep{Klamerth_2013}, ma richiedono tempi eccessivamente lunghi e ancora comportano lo sviluppo di sottoprodotti. In alcuni studi si è proposta, quale soluzione di rimozione di composti farmaceutici, il processo di foto-Fenton e di foto-Fenton modificato, in cui si è cercato di ovviare alla necessità di un pH acido richiesto dal processo di Fenton, aggiungendo agenti complessanti a pH neutro \citep{Klamerth_2013}. I risultati ottenuti sono stati estremamente soddisfacenti, ma anche in questo caso sono i costi elevati il principale fattore limitante. \citep{Wei_2013} hanno, invece, realizzato un nuovo adsorbente, ibrido di nanotubi di carbonio granulare (CNT)/allumina che ha mostrato un’elevata rimozione di Carbamazepina e Diclofenac oltre che la possibilità di riutilizzo dell’adsorbente con conseguente riduzione dal punto di vista economico. Soluzioni promettenti sono anche quelle che prevedono l’utilizzo di una membrana di nanofiltrazione e di osmosi inversa. La seconda ha consentito di ottenere una rimozione superiore rispetto alla prima, ma anche consumi energetici maggiori \citep{Bolong_2009}. Sicuramente la tecnologia maggiormente studiata a scala di laboratorio è quella che prevede l’utilizzo dei  bioreattori a membrana (MBR) in cui si combinano processi di degradazione biologica con filtrazione su membrane. Tale tecnologia comporta una serie di importanti vantaggi rispetto agli impianti convenzionali e in alcuni casi ha consentito la quasi totale rimozione dei microinquinanti, come nel caso dello studio di \citealp{Wintgens_2002} in cui l’effluente del bioreattore a membrana è stato sottoposto ad un'unità esterna di ultrafiltrazione seguita da una fase di adsorbimento su carbone attivo granulare (GAC). Tuttavia nell’utilizzo dell’MBR si riscontra ancora una problematica fondamentale che è quella del fouling, ossia dello sporcamento della membrana \citep{Ensano_2017}, inteso sia come incrostazione sulla superficie della stessa che come occlusione, totale o parziale, dei suoi pori. In Figura 2 è riportato l'inquadramento schematico della situazione attuale, con i propri limiti, e degli obiettivi proposti in termini di rimozione di composti farmaceutici.